La pizza
Noi non frequentiamo le pizzerie di lusso,poiché rappresentano la degradazione del concetto stesso di pizza, vivanda umile e popolare per eccellenza;in quei locali la pizza assume fogge,dimensioni e prezzi inusitati,che seminano lo sgomento tra le file dei villeggianti. Una pur semplice quattro stagioni, ad esempio, può raggiungere cifre da capogiro, perché viene progettata e arredata da un architetto di Milano che ha lavorato con la Gae Aulenti: le materie prime sono sempre quelle consuete: il totano duro come Humphrey Bogart,l’oliva buzzona color coleottero, la cozza morta di tisi e pietosamente ricomposta nel suo cofano funebre e l’immondo, viscido champignon sott’olio: il tutto però fantasiosamente agghindato da festoni di prezzemolini curialeschi e carotine crude modellate da maestri artigiani della Val Gardena. Anche la base è il solito increscioso dal sapore di mummia, sbruciacchiato ai bordi, su cui rassega una antica passata di pomodoro che ricorda con mestizia storici fatti cruenti come l’attentato a Sarajevo; ogni tanto vi affiorano un cappero triste e una stinta sinopia d’acciuga a cui vanno le nostre più sentite condoglianze; della mozzarella autentica si capisce che in cucina se n’è parlato a lungo, ma poi s’è deciso per una imitazione in caucciù che sotto i denti scricchiola come un paio di scarpe nuove. In compenso si possono scegliere prelibatezze come la favolosa <<pizza alla Beppino>>, dal nome blasonato pizzettaro, la quale- del suo ineffabile artefice- conserva imperituro l’insostenibile effluvio delle ascelle, o la mirabile <<pizza calabresella>> su cui allignano, in avanzato stato di metastasi, giallognole fette di salame e branchi di feroci peperoncini addestrati alla caccia alle emorroidi. Per questo preferiamo le più barbaresche pizzerie <<al taglio>> e, con una fogliata bisunta di pedestre <<margherita>> in mano, ne addentiamo voraci, aspettando fiduciosi un domani migliore.